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Regime Giuridico

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Regime Giuridico

Legge 16 giugno 1927 n. 1766 sul riordinamento degli usi civici nel regno e regolamento di attuazione approv. con r.d. 26 giugno 1928 n. 332,con le modifiche derivanti dalla l. 8 agosto  1985 n.431 che ha inserito le terredi demanio civico nella categoria dei beni ambientali, e dalla l. 20 novembre 2017 n. 168 sui Domini Collettivi  come interpretata dalla Corte Costituzionale con le sentenze 31 maggio 2018 n. 113 (n. 113/2018 ) che  ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, l. r. Lazio 3 gennaio 1986 n. 1 sul regime di sanatoria delle terre civiche abusivamente edificate, sentenza 26 luglio 2018 n. 178 (n. 178/2018 ) che ha dichiarato la illegittimità costituzionale   degli  artt. 29, co.1, lett.a)  37,38 e 39  l.r. sarda 3 luglio 2017 n.11  che ha consentito la realizzazione di parcheggi,e strutture leggere di ristoto, ricreative e  sportuve  connesse all’uso del mare e acque interne  prescindendo dall’ obbligo di co-pianificazione tra Stato e Regioni sui beni soggetti a vincolo paesaggistico tra i quali sono ricompresi i beni di demanio collettivo,   e infine la sentenza  24 aprile 2020 n. 71 (n.71/2020)  sulla illegittimità costituzionale dell’art.53 l.r. Calabria  29 dicembre 2010 n. 34 che ha dichiarato cessati i diritti di uso civico  quando insistono sulle aree di sviluppo industriale.  

Il commento alla legge del 1766/1927, e relativo regolamento di attuazione, è contenuto nella voce Usi civici dell’Enciclopedia Giuridica Treccani  che è riportata nelle varie sezioni della Guida usi civici.

In questa sezione riassumiamo  le linee fondamentali delle leggi del 1927/28 sul riordino degli usi civici nel regno e  commentiamo le disposizioni ed i principi innovativi introdotti dalla legge 168/2017 sui Domini Collettivi, per quanto attiene:

1) il rafforzamento con il vincolo ambientale dei beni di dominio collettivo e la perpetua destinazione agro-silvo-pastorale, 

2) l’interpretazione data dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 113/2018, n. 178/2018  e n. 71/2020 sull’utilizzazione dei terreni seminativi per effetto del vincolo ambientale e della pianificazione ambientale e paesaggistica condiviusa tra Stato e Regioni.

In sintesi: i beni patrimoniali e i diritti delle comunità originarie  di abitanti sono fuori dal regime di diritto comune. I beni delle comunità non possono essere alienati, né divisi né rinunciati, i diritti di uso civico sono imprescrittibili e non si perdono mai, anche se non utilizzati, i patrimoni di demanio civico non si usucapiscono. Questo speciale regime di tutela delle leggi del 27/28, che  ne ha permesso la conservazione fino ad oggi, è stato recepito e rafforzato sia  dalla l. 8 agosto 1985 n. 431 che ha inserito i beni di uso civico nella categoria dei beni ambientali  sia dalla legge 20 novembre 2017 n. 168 sui domini collettivi.

Se consideriamo che, nonostante le occupazioni sine titulo e le usurpazioni continue in ogni epoca storica, i patrimoni agro-silvo-pastorali delle comunità di villaggio coprono ancora un buon terzo del territorio nazionale, si può comprendere l’importanza e vitalità  di questi diritti e la loro estensione originaria.

 Sistema della legge n. 1766/1927, e regolamento di attuazione r.d. n. 332/1928: la legge del 1927 è chiamata legge di liquidazione perchè ha regolamentato la liquidazione degli usi o diritti civici delle comunità esercitati su terre private sul modello delle leggi di liquidazione del decennio napoleonico.

 Con la liquidazione dei diritti civici, la proprietà del fondo gravato dagli usi resta libera a favore del proprietario, che è tenuto a pagare un corrispettivo in danaro o in natura alla comunità in cambio degli usi che cessano come esercizio diretto e promiscuo da parte della popolazione. 

La parte positiva della legge del 1927 riguarda i boschi e pascoli permanenti (di cat. A, art. 11 l. n. 1766/1927), perché soggetti ad specifico regime di inalienabilità, più esattamente di alienabilità controllata a mezzo di una specifica procedura di autorizzazione, e di inusucapibilità. Ma soprattutto essa ha vincolato la destinazione del patrimonio silvo-pastorale delle comunità, consentendo così la conservazione delle aree boschive e pascolive (art. 12 l. 1766/1927).

Le aree agricole (cat. B) sono invece destinate ad essere privatizzate, attraverso un complesso sistema di piani di ricomposizione fondiaria, quotizzazione ed assegnazione delle quote alle famiglie dei coltivatori diretti a titolo di enfiteusi e con l’obbligo delle migliorie (artt. 13 – 24 l. 1766/1927 cit.). L’intento del legislatore dell’epoca era quello di formare piccole proprietà contadine a vantaggio del ceto agricolo. Con l’affrancazione del  canone i concessionari divenivano proprietari a tutti gli effetti.  In realtà il sistema delle quotizzazioni non ha funzionato, ed è stato di fatto sostituito dalla realtà delle occupazioni abusive ed  altrettanto abusive trasformazioni edilizie ed  urbanizzazione del territorio.

E’ intervenuta ora la Corte Costituzionale con la sentenza n. 113/2018 che prendendo atto dei mutamenti economici e sociali intervenuti negli anni ’50 e ’60 del ‘900, nel secondo dopo guerra, ha ritenuto  non più necessaria la distinzione tra le due categorie di beni (cat. A , per boschi e pascoli e cat. B per le terre seminative) essendo preminente il valore ambientale dei detti beni che impone la conservazione unitaria dei patrimoni delle comunità locali nel loro complesso, inserendoli nel Codice dei Beni culturali e del paesaggio. quindi secondo la Corte non sarebbe più necessaria l’assegnazione a categoria che ” era funzionale alla qutizzazione dei terreni coltivabili, il cui fisiologico esito era l’affrancazione, (previo accertamento delle migliorie coltuirali) cioè la trasformazione del demanio in allodio oggi incompatibile con la conservazione ambientale” . La destinazione dei beni della comunità viene quindi stabilita non più solo con i piani economici di sviluppo per i patrimoni silvo-pastorali di cui all’art. 12 l. n. 1766/1927, ma anche con i piani paesaggistici di cui all’art. 143, d.lgs. n. 42/2004. La pianificazione paesaggistica condivisa riguarda quindi l’intero patrimonio civico delle comunità per cui sarebbe pleonastica l’assegnazione a categoria.  Comunque è necessario sottolineare che fino ad nuovo intervento normativo rimane fermo il sistema della legge nazionale del 1927, pur interpretandola secondo i criteri del giudice costituzionale.

Va anche detto che nei secoli ‘800 e ‘900 la gestione e l’utilizzazione dei demani civici da parte delle comunità proprietarie sono state molto ridotta a causa del contenzioso che ha bloccato per anni i programmi di gestione, i piani di ricomposizione fondiaria,  di quotizzazione e concessione delle quote (per le terre  di cat. B atte a coltura). Di fatto, i terreni migliori sono stati oggetto di occupazioni abusive da parte dei singoli che le hanno edificate. Le occupazioni sono state in genere sanate a prezzi irrisori con le procedure, lunghe e complesse, di legittimazione e di sanatoria ediliza.

  1. Il vincolo ambientale Codice dei beni culturali, art. 142, lett. h) d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42: Il legislatore nazionale con la legge 8 agosto 1985 n. 431 (cd. legge Galasso) ha inserito i patrimoni delle comunità locali di abitanti nella categoria dei beni ambientali per la necessità di conservare il territorio agro-silvo-pastorale nella sua conformazione naturale originaria. La mossa era strategica: salvare il patrimonio agro-silvo-pastorale delle comunità locali, che coprono ancora buona parte del territorio montano, considerando anche l’interesse sociale, come fonte di lavoro per i residenti. L’amministrazione di questi patrimoni da parte delle stesse comunità titolari dei diritti, in conformità dei rispettivi statuti, regolamenti e consuetudini, avrebbe, infatti, consentito di preservarli dal pericolo di trasformazioni e utilizzi irrazionali e nocivi alla salute e qualità della vita del pianeta. Si può dire che l’operazione  ha avuto un certo successo, perché nonostante le dispersioni e la politica distruttiva delle urbanizzazioni e attività terziarie, si è riusciti a conservare  gran parte del patrimonio agro-silvo-pastorale nel suo contesto naturale [1].  Va però detto che l’uso civico, che era un diritto che assicurava un vantaggio ai cives in termini di utilità  esistenziali, si è trasformato in un vincolo.

Il vincolo ambientale ha reso più difficili le sanatorie edilizie e per questo non è stato accolto con favore dagli utenti. Si è trattato certamente di una misura di necessità, diretta a frenare l’usurpazione e trasformazione dei beni delle comunità locali, tuttavia ha provocato un sentimento di avversione per l’intero settore delle proprietà collettive e proposte generalizzate di estinzione degli usi civici.

  1. La legge n. 168/2017 sui Domini Collettivi: La situazione gestionale dei patrimoni delle comunità collettive originarie del Nord Italia ed imprese sociali del Centro Italia, unita a quella assai vaga e confusa dei demani civici del Sud, è stata profondamente modificata con la legge 20 novembre 2017 n.168  sui domini collettivi.

La legge 168 è una legge di principi e ha valore costituzionale. È una legge  importante, di sistema, perchè riconosce i domini collettivi, comunque denominati e costituiti dalle prime formazioni sociali, come “ordinamento giuridico primario delle comunità originarie”. Le comunità originarie sono quindi riconosciute e poste allo stesso livello dello Stato, e sono addirittura anteriori allo Stato come ordinamento giuridico.

Le strutture delle comunità originarie sono diverse nelle diverse aree territoriali: nel Nord Italia abbiamo le comunioni familiari originarie intergenerazionali, nel Centro (ex Stato pontificio) le comunità imprese sociali, mentre nel Sud Italia non ci sono comunità,  ma  i demani sono aperti all’utilizzo di tutti i cives residenti, e perciò sono detti civici. Mentre le comunità dei cives costituiscono l’universitas civium.

Le comunità originarie, a norma dell’art. 1, l. 168/2017, sono soggette alla Costituzione “con capacità di autonormazione, sia  per l’amministrazione soggettiva e oggettiva, sia per l’amministrazione vincolata e discrezionalein attuazione  dei principi e garanzie costituzionali di cui agli art. 2 Cost. sulla funzione sociale della comproprietà collettiva intergenerazionale, artt. 2 e 42, 2° co. Cost. sui diritti inviolabili e i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale della gestione comune, art. 9 Cost. sul valore ambientale, paesaggistico e culturale del territorio gestito dalle comunità di villaggio, art. 43 Cost. sull’utilità generale delle forme di gestione economica produttiva e dei servizi pubblici essenziali resi dalle stesse comunità (art.1, l. 168/2017)”.

Con questa operazione il legislatore statale ha inserito l’istituto della comproprietà collettiva di derivazione germanica  nel nostro ordinamento giuridico  allo stesso livello della proprietà individuale, pubblica e privata, di stampo romanistico.

La proprietà delle collettività può considerarsi la categoria originaria da cui sono derivati in epoca storica i diversi assetti giuridici della proprietà privata e della proprietà pubblica. Va anche detto che se nel 1947 i costituenti non vollero inserire nella costituzione, accanto alla proprietà pubblica e privata, la categoria della  proprietà collettiva – nel significato di possessi facenti capo ab origine alle antiche comunità di abitanti – la ragione fu di natura essenzialmente socio- politica, soprattutto per il prevalere della cultura borghese/liberale dell’800 e di inizio ‘900. Del resto, l’avversione  alle diverse forme – importantissime – del  possesso  del mondo contadino risulta dai lavori preparatori del testo costituzionale[2].

 Solo con la legge 168/2017 sui Domini Collettivi, l’istituto della comproprietà collettiva è entrato nel nostro ordinamento giuridico, a livello costituzionale, accanto alle categorie romanistiche e classiche della proprietà individuale, pubblica e privata. Mentre il codice Napoleone considerava i biens communaux  come beni propri della comunità di abitanti, che avevano su di essi un diritto riconosciuto a livello formale, in Italia il legislatore dello Stato unitario ha sempre ignorato la realtà del mondo rurale e i diritti delle comunità  locali  confondendoli con i beni patrimoniali dell’ente comune. Nella legge comunale e provinciale  del 1865 (T.U. 20 marzo 1865 n. 2248 all. A)  e nel  R.D. 4 febbraio 1915 n. 148 (T.U. legge comunale e provinciale)  manca qualsiasi riferimento ai beni delle comunità locali. Solo nel T.U. del 3 marzo 1934 n. 383, all’art. 84,  si fanno salve le leggi speciali sugli usi civici[3]. Sia il vecchio codice civile del 1865, che il codice civile vigente del 1942 e la stessa Costituzione del 1948  hanno  sempre considerato soltanto il modello della proprietà esclusiva ed individuale di diritto romano e non le diverse forme di compossesso delle comunità originarie di derivazione germanica (cd. condominio a mani giunte  o per facoltà separate). Il codice civile tratta solo delle forme temporanee di comunione dei beni ( ad es., la comunione ereditaria). Nelle comunità familiari di diritto germanico, l’utilizzo dei beni era esercitato in modo diretto, promiscuo e solidale nell’interesse proprio del singolo e del gruppo, ed era limitato alle esigenze primarie della comunità nel rispetto e tutela massima del territorio.

Il principio di solidarietà e sopravvivenza della comunità e del singolo è l’elemento basilare che  distingue  queste forme di compossesso di antico e diverso regime, risalenti al condominio di diritto germanico, dall’istituto della proprietà esclusiva individuale, pubblica o privata di stampo romanistico nella forma che è prevalsa alla cessazione del regime feudale e si è affermata nell’ordinamento giuridico della società borghese.

 Se compariamo gli effetti che queste forme diverse di comproprietà ed utilizzo dei beni  hanno avuto sul territorio, il risultato è senz’altro a favore della proprietà  collettiva  in aggiunta a quella dei beni comuni.

 Nel sistema vigente ad utilizzo individuale e privatistico, la funzione sociale della proprietà, pur affermata dal’art. 42 della nostra Costituzione, è stata spesso  sottesa. Il territorio è stato sfruttato per finalità di lucro, in modo anche irrazionale e questo ha portato alla distruzione di moltissimi siti naturali e a danneggiare l’ambiente. Nel sistema a regime collettivo, l’utilizzo era limitato ai bisogni primari della comunità residente, e ha così permesso la conservazione dei patrimoni agro-silvo-pastorali e quindi indirettamente la tutela dell’ambiente. Considerando la situazione attuale del pianeta, le variazioni climatiche, l’inquinamento progressivo, la distruzione delle risorse non sostituibili, il sistema  della proprietà collettiva a uso controllato è senz’altro da preferire, perché consente la preservazione del bene patrimoniale per le generazioni future. A questo punto si impone dunque un ripensamento sul modo migliore di gestire il territorio e l’ambiente.

  1. Gli enti di gestione del patrimonio delle comunità titolari (art. 1, punto 2 l. 168/2017): la legge 168/2017 ha dichiarato gli enti esponenziali che gestiscono il patrimonio antico e i beni delle comunità titolari persone giuridiche di diritto privato con autonomia statutaria, superando così tutte le incertezze e le diverse teorie sostenute in passato, dagli Autori e in giurisprudenza, sulla natura giuridica pubblica o privata di queste gestioni[4]

È venuto meno così lo stallo derivato dalla mancata attuazione da parte delle regioni  dell’art. 3 della legge montagna 31.1.1994  n. 97, che aveva affidato alle regioni stesse  il compito di stabilire le modalità  per il conferimento della personalità giuridica alle organizzazioni montane per la gestione dei beni agro silvo pastorali, previa verifica dei  presupposti  in ordine ai nuclei familiari e agli utenti aventi diritto e ai beni oggetto della gestione comunitaria.

Ne consegue che gli enti esponenziali delle comunità che gestiscono attualmente i patrimoni collettivi e i diritti di uso civico delle comunità titolari continuano ad amministrare gli antichi patrimoni collettivi come enti di diritto privato.

Essi però devono ricostituirsi come associazioni private a norma del codice civile con il procedimento e modalità di cui alla l. 10 febbraio 2000 n. 361 sul riconoscimento delle persone giuridiche private  e per l’approvazione delle modifiche dell’atto costitutivo e dello statuto.

 La legge 168/2017 non indica le modalità per la nomina degli organi e questa è una carenza della legge che andrebbe colmata, con norma legislativa o regolamentare. La legge 168/2017 dice solo che dove non ci sono gli enti, i beni sono gestiti dai comuni con amministrazione separata, e dove vi sono beni civici frazionali, le popolazioni interessate possono costituire i comitati per l’amministrazione separata di detti beni civici frazionali ai sensi della legge 17 aprile 1957 n. 278 (art.2, 2° co., punto 4, l. 168/2017).

 La legge 278/1957 però riguarda la convocazione dei comizi da parte dei prefetti per la elezione degli organi sul modello della nomina per i piccoli comuni, ma qui si tratta di nominare gli organi di un’associazione giuridica di diritto privato, quindi il richiamo non è conferente.

Né si può condividere la norma che affida ai comuni con amministrazione separata i beni delle comunità, dove non ci sono gli enti gestori. Come si è detto sopra, i comuni sono stati in passato  pessimi gestori e lo sono ancora e quindi anche questa parte della legge va  ripensata (art. 2, comma 4 l. 168/17).

Non può non preoccupare la gestione dei demani civici da parte dei comuni, nelle zone dove manca la comunità originaria di abitanti e quindi sopratutto nelle Regioni meridionali, considerando l’importanza e la vastità dei demani civici e i gravi conflitti di interesse cui ha dato luogo nel passato la gestione comunale.

La legge 168/2017 comunque è destinata ad avere un impatto assai forte sulla realtà delle gestioni collettive nella parte in cui, dichiarando gli enti gestori persone giuridiche private, consente ad essi di operare con piena autonomia senza essere più condizionati dal potere regionale di vigilanza e  tutela sugli enti, trasferito alle Regioni con il d.P.R. 15 gennaio 1972, n. 11, all’art. 1 ult. co. sul trasferimento alle regioni ordinarie delle funzioni amministrative in materia di usi civici, completato con il D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, di attuazione della delega n. 382/1975 per il trasferimento delle funzioni amministrative statali alle regioni a statuto ordinario (artt. 66, 71, 78 per gli usi civici).

 Come sappiamo, anche il controllo regionale sulla gestione dei patrimoni agro-silvo-pastorali ex art. 11 ult.co. cit.  è stato esercitato malissimo  con carenze e ritardi  e con grave danno per gli enti.

  1. Regime giuridico dei beni delle comunità titolari: la legge 168/2017 ha confermato il regime giuridico di indisponibilità, inalienabilità ed indivisibilità dei beni delle comunità locali e la perpetua destinazione agro silvo pastorale del patrimonio antico delle comunità, a norma della legge gen 16 giugno 1927 n.1766 sul riordino degli usi civici nel regno e rel. regolamento di attuazione (r.d. 26 febbraio 1928 n. 332). Di più ha rafforzato tale regime con il vincolo paesaggistico imposto dall’art. 142, comma 1, lett.h) del codice dei beni culturali e del paesaggio sull’intera categoria dei beni di demanio civico.

 Il regime di cui alle leggi del 1927/28 e art. 142 codice ambientale – è stato reso ancora più rigido con l’interpretazione che ne ha dato la Corte costituzionale con la sent. n. 113/2018 che ha dichiarato illegittime le leggi regionali del Lazio sul regime di sanatoria  delle aree  di demanio civico abusivamente edificate. Le sentenze cstituzionali 113 e 178 del 2018 e la sent. 71/2020 hanno anche riconosciuto la validità e necessità della legge 168/17 nella parte in cui ha confermato  la “sovrapposizione  funzionale e strutturale  tra la tutela paesistico-ambientale  e quella dominicale dei beni di uso civico…” per la realizzazione di interessi generali   ulteriori rispetto a quelli specifici degli interessi collettivi delle comunità originarie.

Abbiamo anche  rilevato la manchevolezza della legge 16872017  nella parte in cui non ha cercato di porre rimedio alla criticità della gestione comunale del demanio civico, soprattutto nel territorio del Sud Italia, nelle zone in cui mancano enti di gestione organizzati con propri organi e statuti. La legge 168/2017 ha mantenuto la gestione comunale nonostante i disastri provocati in passato dalle amministrazioni pubbliche locali che di frequente  si sono avvalse dei beni della comunità locale per risanare i propri bilanci,  ledendo così i diritti originari dei cives.

Con la legge 168/2017 il regime giuridico dei beni resta quello della inalienabilità, indivisibilità e inusucapibilità e della perpetua destinazione agro silvo pastorale, senza alcuna deroga (art. 3, comma 3, l. 168/17). A tale regime si aggiunge, come si è detto, il vincolo paesaggistico  ambientale di cui all’art. 142, comma 1, lett. h) del d.lgs. n. 42 del 2004. La legge 168/17, all’art. 3 comma 6, ritiene che il vincolo paesaggistico garantisce la conservazione degli usi civici e contribuisce così alla salvaguardia dell’ambiente  e del paesaggio e che “… tale vincolo è mantenuto anche  in caso di liquidazione degli usi civici”. Ma se la liquidazione ha l’effetto di liberare dagli usi civici la quota che resta al proprietario, non si comprende la ragione della conservazione del vincolo ambientale.

Si pone comunque il problema dell’abrogazione implicita delle norme delle leggi del 1927/28 che siano  incompatibili con le norme della legge 168/2017 sui Domini Collettivi.

 Quindi occorre ora riflettere e riesaminare le norme che riguardano la quotizzazione delle terre agricole di cat. B, le concessioni in enfiteusi delle quote agli utenti, l’affrancazione del canone enfiteutico e conseguente privatizzazione delle terre di cat. B, e la norma sulla legittimazione delle occupazioni abusive ultradecennali, quando le terre sono state migliorate e non interrompono la continuità del demanio (art. 9,  l. 1766/1927). E ciò in linea con i criteri interpretativi che si traggono dalle sentenza della Corte Cost. n. 113/2018 e n. 178/2018 che ritengono  non più necessaria a questo punto l’assegnazione a categoria dei beni civici e la distinzione fra le due categorie A e B di cui all’art. 11 della legge 1766/1927. 

[1] V. sito www.demaniocivico.it, sezione “Normativa nazionale.

[2] V. Cerulli Irelli, Apprendere per Laudo, pubbl. Quaderni Fiorentini, 2016.

[3] www.demaniocivico.it, Leggi, Stato Italiano

[4] Si è discusso molto nella giurisprudenza della cassazione  anni 30/50 sulla natura pubblicistica o privata di queste associazioni, definite  dapprima ente pubblico economico, poi ente pubblico non economico ed infine ente pubblico minore dalla sentenza ss.un. 3155/1985. La Corte di cassazione per un certo periodo (fine anni ’50- 1980) aveva ritenuto poter qualificare le università agrarie laziali come enti pubblici economici estendendo ai dipendenti i contratti collettivi di lavoro (Cass., S.U., 8 maggio 1957, n. 1577, in Giust. civ., 1957, I, 764) mentre la gestione era vincolata alle norme degli enti locali. Questa situazione contraddittoria è stata superata  da Cass. S.U. 13 maggio 1980, n. 3135 per l’U.A. di Bracciano, in Giur. it., 1980, I, 1, 1128  che ha  inquadrato le U.A. laziali  tra gli enti pubblici non economici.

Brevi note

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