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Storia

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L’uso civico nella storia: sintesi e riferimenti ai testi degli Autori di maggior interesse sul tema specifico dei diritti esistenziali dei cives nelle diverse fasi storiche, dalle origini, nei sistemi ad economia naturale, in epoca feudale, e nei sistemi successivi ad economia monetaria e nella moderna società tecnologica.

1. Alle origini: i diritti civici o di uso civico erano diritti esistenziali, contestuali e funzionali alla formazione dei primi insediamenti umani sul territorio.

Negli ordinamenti primitivi, i cives traevano dal bosco, dai campi, dalle acque le utilitates, i prodotti necessari per la vita e sopravvivenza della comunità (nec inermem vitam ducere, secondo l’antico detto dei giusnaturalisti).

Fabrizio Marinelli, ne “Gli usi civici” (Trattato di dir. civ. e comm. di Messineo, Giuffrè, 2003), ricorda, come già segnalato da Giovanni Cassandro, nella sua “Storia delle terre comuni e degli usi civici nelle terre meridionali”, Bari,1943, pag. 255, che “… proprio dal pensiero dei giuristi della scuola meridionale, quali Andrea d’Isernia, Luca da Penne ed il Cardinal De Luca si sviluppa la concezione degli usi civici quale diritto naturale, che nessun sovrano avrebbe mai potuto abolire, perché tutti gli uomini, in quanto tali, hanno diritto di trarre dalla terra almeno i mezzi di sostentamento e gli strumenti per la soddisfazione dei loro più elementari bisogni”. Oreste Ranelletti nei suoi “Scritti giuridici scelti”, IV, I beni pubblici, Jovene Ed. 1992, Ristampa, pagg. 321- 326, approfondisce la questione dei limiti e della natura giuridica dei diritti dei cives in epoca feudale, nei rapporti con il signore e con i comuni, con ampi ed interessanti riferimenti alle più antiche dottrine. L’utilizzo dei beni era diretto, in natura ed esercitato in modo promiscuo dall’intera popolazione. Si diceva in passato dai demanialisti che ilcivis agiva per sé e per il gruppo, uti singulus et uti civis (cfr.Francesco Aliquò “Della proprietà collettiva civica o demaniale civica, in Riv. Dir. Agrario, fasc. I –II, 1950, parte II°, pagg. 28-30). Ogni uomo valido della comunità coltivava e raccoglieva i prodotti della terra, in tutte le sue accezioni per sé e per i bisogni del gruppo, per il sostentamento dei più deboli, anziani, donne, bambini, in una concezione solidaristica, di difesa e sopravvivenza, che è propria delle più antiche comunità.

Può dirsi, in senso molto generico, che dove vi era un insediamento stabile organizzato sul territorio, vi erano diritti dei cives componenti l’insediamento e, a sua volta, l’insediamento è prova dell’esistenza dei diritti originari dei cives. E’ importante ricordare che, proprio perché si tratta di diritti originari che risalgono ad epoche preistoriche anteriori agli ordinamenti di diritto scritto, è lo stesso possesso ed esercizio di fatto del diritto continuato nel tempo da parte della comunità, che costituisce titolo in un’epoca in cui le regole di vita e sopravvivenza erano regolate dalla consuetudine e si tramandavano oralmente. La prova documentale, in genere, è posteriore, ed è costituita dal riconoscimento dei diritti esercitati anteriormente dalla comunità o dal popolo da parte del re o del signore. In epoca feudale, nei feudi abitati, gli stessi atti di concessione dei diritti di godimento ed utilizzo dei beni a favore della popolazione erano atti ricognitivi degli antichi diritti esercitati di fatto da sempre dalla popolazione del feudo.

Per superare la difficoltà e il più delle volte l’inesistenza di titoli originari e di atti scritti ricognitivi dei titoli originari, gli antichi giuristi, i giuristi del mezzogiorno d’Italia, i cd. demanialisti della scuole napoletane di fine 700, elaborarono una serie di principi e massime dirette ad affermare che, per le terre delle comunità, per le quali manchi un titolo di proprietà, l’anteriore possesso da parte della comunità fa presumere l’esistenza degli usi dei cives.

2. Nell’epoca feudale: i diritti civici hanno avuto il massimo sviluppo nei sistemi ad economia naturale, che caratterizzarono l’epoca feudale.

L’istituto si è mantenuto, negli stati europei, fino al cessare del sistema feudale, ad inizio ‘800, con le leggi eversive della feudalità. Residua oggi, nelle aree rurali, nelle zone montane e vallive, dovunque vi siano comunità di abitanti organizzate sul territorio che gestiscono i beni in base ai propri statuti e regolamenti, e dove permangono ancora forme arcaiche di vita e di organizzazione sociale, soprattutto nelle aree geografiche più remote (nelle foreste dell’Amazzonia, in alcune isole asiatiche, dell’Australia, etc.: uso civico nel mondo).

Il demanio feudale era costituito dai fondi che, nell’ambito del feudo, il re concedeva al feudatario per sostenere gli oneri del feudo e per l’esercizio dei poteri pubblici. I poteri del feudatario erano diversi a seconda che si trattasse di feudo giurisdizionale (feudo nobile) o di feudo giurisdizionale e patrimoniale (F.Aliquò, op. cit. pagg. 20 e ss.).

Nelle provincie del Meridione d’Italia, il feudo, portato dopo il 1000 dai re normanni e succ. dagli svevi, era giurisdizionale: l’investitura avveniva non quaod dominium, sed quoad jurisdictionem, il feudatario aveva solo la jurisdictio (e i poteri pubblici), e l’uti frui, non il dominio del bene (che restava al re). Il signore poteva quindi concedere alla popolazione il solo uso dei fondi per la coltivazione e l’utilizzo dei prodotti per le normali esigenze di vita, ottenendo in corrispettivo una quota dei prodotti del fondo (decima, quinta, etc.). Per la concessione di oneri reali occorreva l’autorizzazione del re. Il rapporto popolazione – feudatario consisteva in un sistema di scambio reciproco di utilità e di oneri. Il più delle volte il rapporto era conflittuale ed in questi casi la popolazione si appellava al re che interveniva a sua difesa contro i soprusi del signore.

Nel feudo abitato, dove in genere preesistevano patrimoni di proprietà originaria della popolazione (ad es. negli antichi catasti troviamo macchie e boschi intestati a Comunità e popolo anche nei territori feudali), l’infeudazione faceva sempre salvi i diritti originari dei cives (c.d. riserva degli usi civici). In ogni caso, anche quando il feudatario concedeva a terzi l’uso del fondo, vendeva il pascolo, fidava le erbe, dava a colonia o a censo alcuni fondi, doveva sempre riservare l’uso civico a favore degli abitanti del feudo. La riserva degli usi civici nel demanio feudale era così importante che la Commissione feudale, istituita da Giuseppe Napoleone con decreto 11 novembre 1807, per giudicare il contenzioso tra Università e baroni, affermò come principio che “tutti i feudi, (tranne le difese costituite secondo le leggi del regno) sono soggetti agli usi civici”(massima 6°).

Nell’epoca feudale più tarda, i baroni cominciarono a chiudere parti del demanio feudale con siepi e muri, con lo scopo di coltivarli e sottrarli così all’uso dei cives. Si formavano così le difese, o parchi, o chiuse, secondo lo stato dei luoghi. Per legge, le difese potevano costituirsi solo con il regio assenso ed il voto favorevole di tutta la popolazione. Di fatto, il consenso dei cittadini si strappava con la violenza e con la paura.

A difesa degli abitanti del feudo, contro gli abusi e le prepotenze baronali, interveniva il re con le prammatiche che tutelavano l’integrità del demanio civico ed impedivano la vendita dei beni ed anche la formazione delle difese senza il consenso di tutta la popolazione riunita in assemblea, una causa justa ac rationalis ed il regio assenso (Prammatiche 18 e 22 “De administratione universitatum”).

Ferdinando I° d’Aragona con la Prammatica de salario nel 1483 ordinò l’apertura delle difese abusive sul demanio feudale; Carlo V, nel 1535 con la Prammatica 2° de baronibus sancì gli stessi principi e proclamò l’inalienabilità del demanio. Ma questo accadeva nel basso medioevo, alla fine della feudalità. Nell’alto medioevo il demanio ed i diritti dei cives erano di norma rispettati dal signore. Nella infeudazione del territorio abitato, il demanio civico universale (dell’universitas civium) era riservato agli usi dei cives, come proprietà originaria ed esclusiva della popolazione, ed era soggetto ad un regime giuridico assai severo di indisponibilità e tutela, proprio perché destinato agli usi e bisogni della popolazione. Sul rapporto feudalità – usi civici v. Fabrizio Marinelli, “Gli usi civici”, nel Trattato di diritto civ. e comm. Giuffrè, 2003, pagg. 16 e ss.; Oreste Ranelletti, I beni pubblici IV, pagg. e per una sintesi F. Aliquò op. cit.).

Negli stati pontifici, il feudo era giurisdizionale e patrimoniale (quoad dominium et quoad jurisdictionem), il feudatario aveva anche la proprietà del bene e poteva concedere i più ampi diritti e usi alla popolazione per ottenerne la massima cooperazione soprattutto nelle zone dove le terre erano in massima parte incolte e paludose: in questi casi era frequente anche la concessione dello jus coadunandi. Per maggiori informazioni, v. Palermo, voce usi civici, Digesto XX. Il demanio regio era formato dai beni che il re riservava al proprio dominio, quando infeudava un territorio; il demanio ecclesiastico era costituito dai beni appartenenti alla Chiesa. Anche su questi beni i cives esercitavano il loro diritto di uso per i loro bisogni primari. Nel feudo abitato la presenza della popolazione è prova dell’esistenza degli usi civici e quindi del demanio (ubi feuda, ibi demania).

3. Età comunale: alla fine del secolo XI, con la formazione del comune, lo sviluppo dei commerci e del libero mercato, il sistema feudale entrò in crisi.

La vita delle popolazioni cambia, si formano nuovi rapporti e nuovi equilibri soprattutto tra il territorio rurale (il contado) e le più forti autonomie comunali (Palermo, voce usi civici, Digesto XX e Ranelletti sul Comune , op. cit. pag. 252 nota sul Comune).

Nelle regioni del Centro Nord e nelle zone alpine, dove il feudo, portato dai longobardi nel sec. VI, non fu mai così forte come nelle regioni meridionali, erano numerose e potenti le organizzazioni di utenti che gestivano i propri beni in modo autonomo sia dal feudatario che dal comune con propri statuti e regolamenti in base alle antiche consuetudini e che hanno denominazioni diverse nelle varie località: università agrarie negli ex stati pontifici, comunanze agrarie in Umbria e nelle Marche, partecipanze agrarie in Emilia- Romagna, regole e vicinie nell’arco alpino (regole ampezzane, regole del comelico,etc.), la magnifica comunità delle regole nel Cadore, la magnifica comunità di Fiemme, i comunelli nel Carso triestino (cd. enti gestori).

4. Dagli inizi dell’ 800 (fine dell’epoca medioevale) con le leggi eversive della feudalità viene meno l’utilizzo promiscuo e solidale del demanio feudale (proprietà divisa tra il signore e la popolazione).

Il demanio feudale viene ripartito: una parte resta in proprietà piena al signore e l’altra parte è assegnata al comune che la quotizza ed assegna le quote ai civesper i loro bisogni di vita (nota ).

I demani di proprietà originaria della popolazione (demanio civico universale) non sono toccati ed anche nelle leggi napoleoniche di liquidazione ne viene conservato il regime giuridico di indisponibilità e di tutela (leggi preunitarie).

Si apre una fase di contenzioso generale prima tra l’universitas (comune) e il feudatario, definito per la maggior parte dei casi nel centro sud con le sentenze dalla Commissione feudale e successivamente tra il comune e i cives per l’assegnazione delle quote: questo contenzioso dura grosso modo fino a metà 900 (legge del 27).

5. Nell’epoca attuale– Nei secoli 800 e 900 l’attività di gestione dei demani civici da parte delle comunità o degli enti gestori è stata molto ridotta a causa del contenzioso che ha bloccato per anni i programmi di gestione, i piani di quotizzazione e di concessione delle quote (per le terre atte a coltura). I territori migliori, abbandonati di fatto dalle comunità e dagli enti gestori, sono stati oggetto di occupazioni abusive da parte dei singoli, sanate con le procedure di legittimazioni e di sanatoria lunghe e costose.

Per tutelare i patrimoni delle comunità il legislatore nazionale ha ritenuto che il sistema migliore fosse sottoporli al regime di tutela dei beni paesaggistici (legge Galasso,L. 431/85). L’uso civico, che era un diritto che assicurava un vantaggio ai cives in termini di utilità esistenziali, è diventato così un vincolo. Si è trattato certamente di una misura di necessità, per frenare l’usurpazione dei beni delle comunità locali, ma il vincolo ha provocato un sentimento di avversione assai forte e proposte generalizzate di estinzione degli usi civici (uso civico nel mondo moderno).

Riportiamo alcuni brani degli “ Appunti sulla proprietà collettiva e suo ordinamento” di Nunzio De Renzis, perito-istruttore demaniale, molto attivo soprattutto nella prima metà del ‘900, ed autore di pubblicazioni tecniche di grande interesse. Gli Appunti di De Renzis costituiscono una esposizione di sintesi molto utile per la consultazione su questi temi, in particolare sulla formazione e vicende successive dei patrimoni e diritti civici nelle diverse regioni (Nord Italia, ex stati pontifici del centro Italia e territori meridionali), e sul passaggio dagli Stati preunitari all’ordinamento giuridico statale. Gli Appunti sono pubblicati nella Rivista di Diritto Agrario del 1942.

Brevi note

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